La compagnia petrolifera spagnola Repsol ha deciso di rinunciare a 55 permessi di trivellazione nel Mare dei Chukchi, in Alaska e di abbandonarne anche i restanti 38 nel 2017. Il portavoce della multinazionale, Jan Sieving, ha confermato: «Repsol è in procinto di abbandonare le sue posizioni nel Mare di Chukchi, nell’offshore dell’Alaska»
La Big Oil spagnola è l’ultima ad abbandonare l’avventura offshore dl Chukchi Lease Sale nell’Artico Usa, dopo Shell, ConocoPhillips, Eni, e Iona Energy, che hanno lasciato l’Alaska dopo aver scoperto – a caro prezzo – quello che dicono da sempre gli ambientalisti: le trivellazioni offshore non valgono la spesa e il rischio. Shell ha rinunciato dopo aver speso più di 4 miliardi di dollari in un pozzo esplorativo offshore ed aver visto naufragare la sua piattaforma petrolifera Kulluk. A parte un blocco di concessioni che Shell sta mantenendo per non perdere le informazioni acquisite dal suo fallimentare pozzo esplorativo nel 2015, le concessioni esplorative di Repsol erano le ultime rimaste nel Mare dei Chukchi.
«Il mese scorso abbiamo capito che la Shell e un sacco di altre companies avevano restituito i loro contratti di locazione – ha detto a ThinkProgress Mike Levine, consulente per il Pacifico di Oceana – Dopo otto anni, miliardi di dollari e significative controversie, il Mare dei Chukchi e tornato ad essere ripulito». Nel 2008 quelle concessioni erano costate a Repsol 15 milioni di dollari in cambio della possibilità di cercare petrolio e gas su oltre mezzo milione di acri di fondale oceanico. Dopo il boom degli anni ’80 e ’90, quando le multinazionali petrolifere facevano la fila per accaparrarsi gigantesche concessioni nel Mar Glaciale Artico, tutti i contratti nel mare di Chukchi, con scadenze iniziali di 10 anni, sono stati abbandonati entro il 2003. Ne sono rimasti alcuni nel vicino Mare di Beaufort, più vicino alla costa e più facilmente collegabili a infrastrutture e oleodotti. Un altro boom c’era stato nel 2003 – 2008, quando le Big Oil si divisero altri 3 milioni di acri per cercare petrolio e gas. Ma ancora una volta, secondo uno studio di Oceana, delle 487 concessioni nel Mare dei Chukchi non ne rimane attiva che una: quella di testimonianza della Shell, mentre le concessioni attive nel Mare di Beaufort sono scese da 240 a 71 e molte delle superstiti sono vicine alla scadenza e senza progetti di trivellare. Anche Repsol ha detto che i sui contratti nel Mare di Beaufort sono oggetto di revisione e che potrebbe essere ceduti o abbandonati.
Levine sottolinea: «Sia Repsol che Shell hanno detto che stanno avviando un processo separato per perseguire l’esplorazione nel Beaufort. Resta un mistero il motivo per cui le companies si tengano ancora in mano questa roba». Infatti, per le Big Oil è sempre più chiaro che le trivellazioni offshore nell’Artico sono una pessima idea: le piattaforme sono a rischio per gli iceberg e la banchisa e l’oscurità e le temperature estremamente basse impediscono di lavorare per gran parte dell’anno. Questo significa che costa, mentre il costo del greggio è calato rapidamente, l’estrazione di petrolio e gas dall’Artico costa miliardi di dollari in più di quelli “convenzionali”.
Ma le trivellazioni offshore nell’Artico espongo le Big Oil anche al rischio di una marea nera che sarebbe praticamente impossibile bonificare: nel 2011 la Guardia costiera Usa disse di non essre preparata in caso di sversamento nell’Artico e La Noaa sta ancora studiando e testando i metodi su come rispondere a un disastro di questo tipo.
Anche l’’opposizione alle trivellazioni petrolifere nell’Artico espressa dai due maggiori candidati democratici alla presidenza Usa, Hillary Clinton e Bernie Sanders, ha sicuramente svolto un ruolo enorme nelle decisioni della Repsol e delle altre multinazionali di ritirarsi dall’Artico Usa, ma è anche grazie a questa discussione tutta politica che le Big Oil stanno cambiando rotta: Shell ha consegnato a Nature Conservancy of Canada 30 concessioni esplorative nell’Artico orientale per consentire al governo canadese di istituire un’Area marina protetta a Lancaster Sound.
Ma se le Big Oil stanno ritirandosi dall’Artico americano, in Eurasia la musica non cambia: la Norvegia disinveste i sui ricchi fondi pensione dalle energie fossili degli altri, ma sta ancora cercando, senza successo, di trivellare petrolio offshore nell’Artico. La Russia sta procedendo nei suoi sforzi per aumentare i suoi depositi siberiani con il greggio da trivellare dai fondali marini al largo delle sue lunghissime coste artiche, anche se partener come la Exxon hanno dovuto abbandonare dopo le sanzioni occidentali per il conflitto ucraino.
Gli ambientalisti sanno bene che potrebbe trattarsi solo di una ritirata strategica e che le Big Oil sono pronte a tornare nell’Artico se il prezzo del petrolio salirà di nuovo e per questo dicono che è arrivato il momento di approvare leggi e regolamenti nazionali e internazionali che impediscano la possibilità di una disastrosa area nera nell’Artico. Dan Ritzman, direttore per le operazioni artiche di Sierra Club dice che la decisione di Repsol di rinunciare a trivellare il Mare dei Chukchi, «Dimostra non solo che la trivellazione nell’Artico è troppo pericolosa per il nostro clima e il nostro ambiente, ma che le compagnie petrolifere non vogliono più nemmeno esplorare lì. Le comunità artiche e centinaia di migliaia di attivisti in tutto il Paese hanno accusato ad alta voce Shell quando ha tentato di trivellare l’anno scorso. Queste comunità e attivisti hanno continuato a chiedere di proteggere l’Oceano Artico, invitando il presidente Obama a toglierlo dal piano quinquennale per le trivellazioni offshore. E’ il momento che l’amministrazione Obama ascolti le comunità artiche, gli attivisti climatici e ambientali e le compagnie petrolifere e protegga l’Oceano Artico dalla minaccia delle trivellazioni offshore».
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