L’Italia è già il terzo paese più vecchio al mondo, e la demografia sarà una forza sempre più potente nel plasmare la realtà del nostro Paese negli anni avvenire. Una forza, come tutte quelle che agiscono sul lungo periodo (il cambiamento climatico ne è un esempio evidente), che l’odierna politica marketing tende a ignorare, nonostante i suoi effetti siano già chiari ai nostri giorni. Al contrario di quanto può sembrare seguendo la cronaca dei nostri giorni, in Italia non c’è nessuna invasione di migranti. Già l’anno scorso il bilancio demografico nazionale pubblicato dall’Istat precisava: «Al 31 dicembre 2014 risiedono in Italia 60.795.612 persone, di cui più di 5 milioni (8,2%) di cittadinanza straniera». Una percentuale significativa ma molto lontana dall’acutizzarsi, e che nasconde un dato assai rilevante: nello stesso anno, gli italiani emigrati hanno superato gli immigrati.
Una tendenza sta continuando ancora oggi. Come certifica ancora l’Istat, al 1° gennaio 2016 la popolazione italiana residente è diminuita di rispetto al 2015 di 139 mila unità, un cambiamento assai rilevante. La popolazione italiana ha già ingranato la retromarcia, e anche i migranti – nonostante le immagini terribili dei barconi carichi di anime in fuga cui tristemente ci stiamo abituando – arrivano meno che in passato. Nonostante ciò, il saldo dei contributi sociali loro riservati resta ampiamente positivo per le casse pubbliche. Come ha recentemente confermato il presidente dell’Inps, Tito Boeri, gli immigrati in Italia versano all’istituto 8 miliardi l’anno e ne ricevono 3.
A preoccupare maggiormente dovrebbero essere altre dinamiche demografiche. Quelle che vedono sempre più giovani italiani migrare all’estero senza che giovani e brillanti menti da altri Paesi riescano a compensare lo squilibrio, ad esempio. Ancor di più, la crescente tendenza a fare meno figli: ci ha pensato Eurostat a ricordare, nei giorni scorsi, che il tasso di fertilità in Italia è ormai precipitato al gradino più basso dell’Unione europea, con i vari “bonus bebè” pensati dal governo che si sono rivelati meno efficaci di un placebo. Che il nostro Paese stia percorrendo a passo di gambero un percorso imboccato ormai un paio di secoli fa?
Negli ultimi 200 anni circa, l’umanità ha intrapreso un percorso che l’ha portata a considerare la crescita economica come la norma; guardando a ritroso, in realtà i secoli che stiamo attraversando rappresentano un’eccezione unica rispetto all’intera storia umana. Lo stesso si può dire per la crescita demografica. L’intreccio tra l’evoluzione tecnologica e il cambiamento di modelli socio-culturali di riferimento ha portato a migliorare in modo stupefacente le condizioni di vita di (sempre più) larghe fette di popolazione. Il prezzo pagato è stato l’ampliarsi della forbice delle disuguaglianze e, soprattutto, la perdita di capitale naturale, i cui servizi sono essenziali alla vita stessa.
Mentre l’umanità sta ancora oggi crescendo rapidamente, in tutti i sensi, l’ambiente di cui fa parte non è cambiato di una virgola nelle sue dimensioni quantitative. A fronte di queste banali considerazioni, da Malthus in poi dovrebbe essere chiaro perché le variabili studiate dalla demografia rivestano un ruolo determinante nel raggiungimento di un qualsivoglia orizzonte di sostenibilità.
Eppure, incredibilmente, come hanno potuto constatare dal Worldwatch institute – uno dei principali poli di ricerca sull’economia ecologica a livello mondiale – gli interventi demografici sono tra i meno studiati (e praticati) in fatto di sostenibilità. Il perché è facilmente intuibile. Come spiega Robert Engelman presentando il rapporto Family Planning and Environmental Sustainability: Assessing the Science, collegare benefici ambientali alla pianificazione familiare «può essere controverso, dal momento che la pianificazione familiare è – e dovrebbe essere sempre – una scelta privata che le persone fanno per proprie ragioni».
Eppure, è indiscutibile che il numero degli esseri umani sul pianeta – insieme alla tecnologia a loro disposizione e il benessere economico goduto – sia fortemente correlato agli impatti antropici sull’ambiente. Uno dei padri fondatori dell’economia ecologica, l’economista Herman Daly, nel suo “Lo stato stazionario” (Sansoni, 1981) arrivò a rilanciare un progetto di licenze di nascita trasferibili per lenire il problema tramite meccanismi di mercato. Meccanismi che non tengono però in debito conto l’aspetto affettivo e in fin dei conti “umano” delle nascite, e dunque non hanno mai trovato un seguito.
Ciò non toglie che la demografia è e rimarrà una forza portante nel successo o nella caduta di ogni politica per la sostenibilità. L’Italia con il suo “degiovanimento infelice” e altri paesi alle prese con una sovrappopolazione dilaniante sono agli estremi dello stesso, drammatico problema.
Il Worldwatch, dopo aver analizzato la più ampia base di articoli scientifici pubblicati negli ultimi dieci anni (in tutto, 939 paper) a proposito di pianificazione familiare a sostenibilità ambientale ha concluso che raggiungere «una bassa traiettoria nella crescita della popolazione mondiale potrebbe ridurre le emissioni di gas serra nella prima metà del 21° secolo in una misura paragonabile all’eliminazione di tutta la deforestazione», per non parlare dei guadagni in fatto di risorse naturali risparmiate.
Gli impatti della popolazione sul clima variano molto a seconda del contesto: senza guardare lontano, dal 1975 al 1999 un aumento della popolazione nella misura dell’1% in 8 paesi entrati nell’Ue nel 2004 (come Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia) ha comportato un aumento della CO2 emessa del 2,73%, mentre un identico aumento della popolazione in Paesi del nocciolo duro dell’Ue come Germania, Regno Unito (sigh) e Francia ha portato a incrementi cinque volte minori (emissioni a +0,55%).
Fatte salve le debite differenze, è indispensabile includere sempre più le politiche demografiche all’interno dei progetti, internazionali o meno, che hanno a cuore la sostenibilità. «Dati gli alti livelli d’interesse per il potenziale contributo della pianificazione familiare all’ambiente, e l’importanza dei collegamenti sia con la sostenibilità sia con la salute riproduttiva e i diritti – concludono dal Worldwatch – più ricerca scientifica (e finanziamenti per portarla avanti) è realmente necessaria, specialmente per i giovani ricercatori e nei paesi in via di sviluppo».
di Luca Attani
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