Il XII rapporto sulla Qualità dell’ambiente urbano, un tomo da poco meno di mille pagine appena pubblicato dall’Ispra, osserva la situazione ambientale del Paese analizzando in dettaglio quella dei 116 capoluoghi di provincia sparsi lungo lo Stivale: qui risiede una minoranza (circa il 30% degli italiani, oltre 18 milioni di persone), ma il punto d’osservazione rimane privilegiato. «Le città, come riferisce anche la Commissione europea, sono “causa e soluzione delle difficoltà di natura economica, ambientale e sociale di oggi”. Sappiamo – osserva nel rapporto il segretario generale Anci, Veronica Nicotra – che le aree urbane in Europa ospitano oltre due terzi della popolazione ed è qui che vengono utilizzate circa l’80% delle risorse energetiche», senza dimenticare il consumo di beni materiali e dunque di risorse naturali.
È dunque in primo luogo alle città che dobbiamo guardare per comprendere i problemi ambientali italiani, e dunque tentare di risolverli. In particolare, il focus dell’analisi scelto quest’anno dall’Ispra è quanto mai attuale, vista l’emergenza smog che – come periodicamente accade – è tornata a interessare ampie aree del Paese.
L’Organizzazione mondiale della sanità stima che ogni anno nel mondo 4,3 milioni di decessi siano attribuibili all’esposizione all’inquinamento indoor, cui se ne aggiungono 3,7 milioni legati all’inquinamento atmosferico più propriamente detto (outdoor). Una parte sensibile di queste vittime sono italiane: «L’Agenzia europea per l’ambiente ha stimato che in Italia – ricorda l’Ispra – nel 2013, 66.630 morti premature possano essere attribuibili all’esposizione a lungo termine al PM2,5, 21.040 all’NO2 e 3.380 all’O3». Circa 91.050 vittime, solo guardando a 3 inquinanti.
«Emerge chiaramente – prosegue l’Ispra – la notevole distanza dagli obiettivi dell’Oms: l’89,7% della popolazione nei comuni considerati risulta infatti esposto a livelli medi annuali superiori al valore guida per il PM10 (20 µg/m³), l’82,0% a quello del PM2,5 (10 µg/m³), il 27,2% a quello dell’NO2. Non sorprende dunque il fatto che nelle stime recentemente elaborate dall’Agenzia europea per l’ambiente l’Italia figuri tra le nazioni con gli indici di rischio sanitario più elevati».
L’Europa ha appena adottato nuovi limiti alle emissioni nazionali (tramite la Direttiva Nec) prevedendo obiettivi specifici al 2020 e al 2030, ma ad oggi per il nostro Paese rimangono una chimera anche quelli fissati dal 7° Programma di azione per l’ambiente, che semplicemente puntano a “un significativo miglioramento della qualità dell’aria outdoor in Italia, che si avvicini ai livelli raccomandati dall’Oms”.
«Per quanto riguarda il PM10 – osserva l’Ispra – non solo l’obiettivo di rispettare i livelli raccomandati dall’Oms sembra lontanissimo (in oltre l’80% dei casi si registrano più di tre superamenti della soglia di 50 µg/m³ per la media giornaliera) ma anche rispettare quello previsto dalla legislazione vigente (non più di 35 superamenti in un anno) è ancora difficile su tutto il territorio nazionale».
Cos’è possibile fare per migliorare la situazione? Intanto, prendere consapevolezza che gli interventi-spot non sono utili alla causa: «È ormai assodato – rimarca l’Ispra – che la riduzione dell’inquinamento atmosferico è una sfida che non può essere affrontata mediante provvedimenti emergenziali e su scala locale». Questo perché «il principale determinante» dell’inquinamento atmosferico come delle emissioni di gas serra «è il consumo di energia, in particolare quella che proviene da fonti fossili (petrolio, gas naturale, carbone)». È chiara dunque la necessità di interventi strutturali: «Le politiche potenzialmente più efficaci appaiono quelle strutturali e di ampio orizzonte temporale e spaziale, almeno regionale, o, meglio interregionale».
Nel 1971 il 75% dell’energia primaria consumata in Italia (125 Mtep) proveniva dal petrolio, il 9% dal gas naturale, l’8 % dal carbone; nel 2005, anno in cui si tocca il picco dei consumi energetici (198 Mtep, contro i 171 del 2015) la ripartizione in fonti primarie è già «profondamente modificata: 43% petrolio, 36% gas naturale, 9% carbone, 5% importazione di elettricità, 7% fonti rinnovabili». Solo 9 anni dopo, nel 2014, il quadro è mutato ancora una volta in modo deciso: «35% petrolio, 31% gas naturale, 8% carbone, 6% importazione di elettricità e ben 21% fonti rinnovabili, la cui quota triplica rispetto al 2005». Risulta dunque evidente, anche in termini di salute, l’importanza sia di rimettere in moto la corsa delle energie rinnovabili – profondamente logorata negli ultimi anni a causa di politiche contraddittorie – sia di affidare «la priorità» a efficienza e risparmio energetico.
È inoltre fondamentale anche sapere quali sono le principali fonti d’inquinamento atmosferico da combattere: nel 2015 il 37% dei consumi energetici italiani – prima causa di tale inquinamento – è dato dagli usi civili (come il riscaldamento), il 32% dai trasporti e “solo” il 22% dall’industria il 22%. Dunque, pur «senza abbassare la guardia sul settore industriale e su quello agricolo che include gli allevamenti – sottolinea l’Ispra – i settori su cui intervenire prioritariamente sono trasporti e usi civili, e il contesto su cui operare prioritariamente è quello urbano». Tale considerazione «non può non avere delle ricadute in termini di politiche ambientali», come non è possibile ignorare un’altra verità fondamentale: l’importante ruolo della lotta alle «condizioni di disagio sociale, che, tra le altre cose, possono influire anche sugli aspetti della salubrità dell’aria interna (indoor, ndr)». Ancora una volta, una reale sostenibilità si ottiene agendo in contemporanea su società, ambiente ed economia.
di
Luca Aterini
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