UN CACCIATORE, un cucciolo di foca, un attivista che si frappone fra i due. In un'immagine del 1976 affonda le radici l'ostilità per Greenpeace del popolo del Grande Nord. Perché la campagna contro la mattanza delle foche nell'Artico che da quella fotografia prendeva le mosse, si abbatté anche sulle comunità degli Inuit. "Fu un attacco non solo alla nostra sopravvivenza, ma anche alla nostra cultura", racconta oggi Alethea Arnaquq-Baril che nel film "Angry Inuk") documenta i danni che l'attivismo animalista degli anni Settanta e Ottanta provocò all'economia locale.
Cresciuto nelle pance vuote e nella miseria, nell'alcolismo e nei suicidi in aumento, quell'astio si è fatto strada per anni nel cuore dei popoli dell'Artico, ma oggi si prende una rivincita. Le nuove generazioni ripartono da una risorsa che campagne non sempre sufficientemente chiare (per ammissione della stessa Greenpeace), avevano messo in ginocchio: la pelle di foca. Bandita per anni dagli armadi di mezzo mondo, i nuovi stilisti, sul crinale tra tradizione e innovazione, puntano a farle riacquistare una posizione nell'haute couture. "La foca fa parte della nostra cultura", dice al Guardian Victoria Kakuktinniq. 27 anni, per disegnare la sua collezione di abiti, si è immersa nel mondo dai vecchi eschimesi, maestri conciatori di guanti e pellicce. Poi, con internet, si è connessa al resto del mondo e nel 2013 è nata "Victoria's Arctic Fashion", uno store online su cui vende i capi direttamente dal nord estremo del Canada: "Gli Inuit ce la stanno mettendo tutta per promuovere la loro cultura e mostrare come vivevano i loro antenati"
Uno stile di vita messo a lungo sotto processo dalle campagne degli ambientalisti. "Siamo sempre stati un popolo di cacciatori", torna a dire Alethea Arnaquq-Baril. "È frustrante vedere che queste campagne siano state sempre promosse da organizzazioni che vivono nelle zone ricche del mondo, con grandi risorse naturali a disposizione e temperature miti". E invece, tra gli Inuit, c'è chi, con il crollo delle richieste di pelli di foca, "ha perso fino al 90% del proprio reddito" e la povertà è diventata cosa normale a Nunavut. Infatti, con distinzioni talvolta approssimative o poco chiare tra cuccioli di foca (la cui mattanza è vietata) e foche adulte, tra bracconaggio a fini commerciali o di sussistenza, le azioni di Greenpeace degli anni Settanta e Ottanta oltre a indiscutibili meriti, hanno avuto anche effetti collaterali, come la demonizzazione in toto della caccia alle foche. Una condanna senza sconti, e non solo morale.
''Se salviamo le foche che fine faranno gli Inuit?''
Quando nel 1983 l'Europa vietò l'importazione di prodotti derivanti da cuccioli di foca, a rimetterci, alla fine, furono soprattutto le comunità indigene, la cui caccia tradizionale non includeva i piccoli mammiferi. Se ne rese conto la stessa Greenpeace canadese che nove anni fa, in un comunicato ufficiale, fece mea culpa scusandosi con le comunità Inuit per aver "fatto del male a molti, sia economicamente che culturalmente", "le conseguenze, pur non intenzionali" erano andate "molto al di là" . "Con tutti i soldi che ha guadagnato, Greenpeace avrebbe dovuto risarcire ogni Inuit con un milione di dollari", ha ribattuto di recente in un'intervista alla tv canadese Cbc Aaju Peter, sarta di pelli di foca.
di SILVIA DE SANTIS
http://www.repubblica.it/ambiente/2017/05/19/news/il_riscatto_dei_giovani_inuit_gli_animalisti_ci_hanno_rovinato_cacciare_e_nella_nostra_cultura_-165823531/