Parlerà a un Paese più diviso che mai. Tra democratici e repubblicani che i sondaggi mostrano sempre più ai ferri corti, con la sfiducia reciproca ai massimi. E sulla sua presidenza, tra tassi di popolarità della Casa Bianca che restano a loro volta nell'insieme dell'elettorato a livelli storicamente bassi (il 38% in media), riflesso di una leadership che non ha saputo o voluto finora unire davvero il Paese per governarlo.
Discorso a un’America divisa
È questa l’America alla quale si rivolgerà stanotte Donald Trump nel suo primo vero Discorso sullo stato dell’Unione - al giro di boa del primo anno nello Studio Ovale. L’anno scorso, a fine febbraio, il suo primo intervento a Camere riunite non poteva essere considerato uno Stato dell’Unione perché agli albori del mandato. E a questi Stati “disuniti”, secondo le indiscrezioni, cercherà adesso di inviare un messaggio venato di ottimismo, meno cupo dei discorsi che avevano caratterizzato i suoi inizi quando denunciava piuttosto una «carneficina», sociale ed economica, in corso nel Paese che aveva portato al suo declino sotto i presidenti che lo avevano preceduto, a cominciare da Barack Obama. Se però sarà in grado di rispolverare almeno in parte un ottimismo di reaganiana memoria, invocato anche da alcuni conservatori, resta tuttora l’interrogativo senza risposta.
Dal commercio all’immigrazione rilancio della dottrina Trump
Sarà un messaggio ancora incentrato sul controverso slogan di America First. Che avrebbe, nelle sue parole, garantito forza e sicurezza alla nazione. E che dovrebbe rilanciare anche le tematiche più scottanti della sua “dottrina”, dalle rivendicazioni commerciali alla durezza sull’immigrazione e a una politica estera in fuga dal multilateralismo, dove le tensioni tanto all’interno quanto tra alleati e rivali fuori dai confini restano alte. Un’America First essa stessa foriera di incertezze, che a seconda dei momenti ha sbandierato con toni più aggressivi o più concilianti, passando da un acceso nazionalismo e protezionismo all’idea che “First”, prima di tutto, non significa necessaariamente “Alone”, da “soli”.
Soprattutto, Trump rivendicherà e cercherà di rilanciare quelli che considera ad oggi i successi fondanti della sua presidenza. A partire dall’economia, dove può contare su una crescita che ha marciato negli ultimi tre trimestri al passo vicino al 3 per cento (anche se i meriti presidenziali per l’andamento economico sono sempre dubbi lui non è mai stato timido nel vantarli). Plaudirà al passaggio di un’ambiziosa legge di riforma delle tasse rivolta anzitutto ad abbassare il carico fiscale alle aziende, che dovrebbe stimolare investimenti e creazione di posti di lavoro. E da qui deriverà la sua conclusione che lo stato del Paese è “forte”, linea tradizionale di tutti i presidenti.
Un bilancio in chiaroscuro
Un bilancio del suo primo anno di presidenza, però, rivela anche tutti gli interrogativi sollevati, le potenziali debolezze. Tra le promesse di Trump la riforma della tasse, sgravi per 1.500 miliardi in dieci anni, è la sola veramente mantenuta. La smantellamento della riforma sanitaria Obamacare è almeno parzialmente fallito, affidato a decreti e emendamenti che l’hanno indebolita senza cancellarla. Sull’immigrazione la battaglia è accesa: la promessa centrale di costruire un grande muro da 20 e più miliardi di dollari ai confini con il Messico è ancora da venire, osteggiata sia dall’opposizione democratica che da parte dei repubblicani. Un’auspicata legalizzazione dei Dreamers, i clandestini arrivati da bambini, rimane da risolvere. Anche se sono invece realtà i promessi e controversi giri di vite agli ingressi, da retate di illegali a ordini esecutivi finiti in tribunale contro i visti a cittadini di Paesi (anzitutto islamici) considerati a rischio. La campagna anti-droga, contro l’epidemia della dipendenza da oppiacei, rimane una priorità solo sulla carta. Un piano infrastrutturale da almeno mille miliardi di dollari deve a sua volta ancora trasformarsi in realtà e avrà bisogno della cooperazione del Congresso.
Sul commercio le battaglie irrisolte non sono da meno: una revisione o cancellazione del Nafta, l’accordo di libero scambio nordamericano, è ostaggio di trattative tuttora difficili. L’impegno a riportare in vita industrie in crisi, quali il carbone, non poteva che essere disatteso e oggi il consumo di carbone è ai minimi dagli anni Settanta e continua a scivolare.
La stessa riforma della tasse è diventata un banco di prova dagli esiti men che sicuri: se gli incentivi alle imprese sono chiari, meno trasparente è l’impatto su cedi medi e medio bassi ai quali Trump aveva promesso aiuti. Le riduzioni delle imposte sono qui minori e temporanee e potrebbero essere compensate da risparmi su programmi federali che giovano ai redditi inferiori. Resta inoltre da capire se gli investimenti promessi dalla Corporate America sul fronte domestico, quale effetto degli sgravi, si materializzeranno. Numerosi osservatori guardano con relativo scetticismo agli annunci effettuati da numerose aziende considerandoli abbelliti ad arte - Apple un caso su tutti - e prevedono che buona parte dei profitti esteri rimpatriati grazie a sconti una tantum sull’imposizione finiranno in operazioni finanziarie, da dividendi e buyback a fusioni. Mantre i salari di molti americani, anzitutto i più vulnerabili, rimangono stagnanti.
di Marco Valsania
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