Forse non è ancora arrivata l’ultima ora dell’agricoltura chimica e della agroindustria, ma sicuramente si avvertono nell’aria i segni di un venticello – forse di un vero e proprio vento -avverso a quella che una volta era stata definita la ‘rivoluzione verde’. A far risuonare uno dei rintocchi della campana sono le Nazioni Unite che la scorsa settimana, nel Simposio sull’Agroecologia che si è tenuto a Roma alla FAO, hanno parlato abbastanza chiaro: “Il modello della rivoluzione verde, iniziata dopo la seconda guerra mondiale, è esaurito”. Parole pronunciate dal direttore della FAO José Graziano da Silva, in una sede che più istituzionale non si può, di fronte a 700 delegati in rappresentanza di 72 governi, di circa 350 organizzazioni non-governative e di sei agenzie ONU.
Non si tratta certo di un messaggio isolato: nella dichiarazione finale del summit, assieme a una lunga lista di azioni positive per far partire una sorta di rivoluzione verde-verde è inclusa la raccomandazione ai governi perché sviluppino politiche e quadri legislativi che promuovono e sostengono l’agroecologia e i sistemi alimentari sostenibili, oltre a rimuovere “incentivi perversi” all’agricoltura non sostenibile.
Quello che non ha funzionato, nella cosiddetta rivoluzione verde del dopoguerra, è stata la prova sulla lunga distanza. Dopo un primo momento in cui la trasformazione dei campi in ordinate distese agroindustriali ha fatto aumentare la disponibilità di cibo del 40% a livello procapite, è cominciata un’epoca in cui il trend positivo si è interrotto. L’anno scorso, erano ancora 815 milioni le persone che rischiano la morte per fame, a livello mondiale, mentre i dati sull’inquinamento della terra, dell’acqua, dell’aria e degli stessi cibi nel piatto sono saliti e continuano a salire a livelli sempre più allarmanti. Sono stati infatti scaricati sull’ambiente e sulla salute– secondo la stessa analisi degli esperti FAO – i bassi prezzi dei cibi, che non hanno mai tenuto conto dei danni provocati dall’inquinamento.
Insomma, quello che si è affacciato al summit di Roma è un approccio radicalmente diverso e molto più vario all’agricoltura, che non solo fornisce cibo ma una serie di servizi insostituibili. Per il Presidente del Simposio FAO, il brasiliano Braulio Ferreira de Souza Dias, “l’agroecologia offre benefici multipli, per la sicurezza alimentare e la resilienza, per rafforzare i mezzi di sussistenza e le economie locali, per diversificare la produzione alimentare e le diete, per migliorare la fertilità e la salute dei suoli, per aiutare ad adattarsi ai cambiamenti climatici e a mitigarne gli effetti, oltre a contribuire a preservare le culture locali e i sistemi di conoscenze tradizionali”.
A dover diventare protagonisti di questa seconda rivoluzione verde, dovranno quindi essere i piccoli agricoltori piuttosto che le grandi aziende dell’agrochimica, ma i veri agenti del cambiamento sono i consumatori, hanno sottolineato molti degli interventi. Fabio Brescacin, presidente di NaturaSì – unica azienda dell’agroalimentare presente nel panel degli interventi – ha chiarito oltre ogni ambiguità la centralità il potere di chi acquista: “I consumatori interessati al biologico crescono velocemente. Solo in Italia possiamo calcolare che in almeno mezzo milione di famiglie il bio si consumi frequentemente. Ma a livello generale non c’è una vera coscienza di quello che vuol dire coltivare un campo. Pagare al produttore 8 centesimi al chilo i pomodori significa condannarlo a inquinare, perché quel prezzo non ripaga i costi di un’agricoltura pulita. Occorre quindi – conclude – pensarla in termini nuovi, anche rispetto al giusto prezzo che i consumatori devono scegliere di pagare per sostenere tutti i servizi ambientali e sanitari forniti dall’agricoltore”.
di Livio Lucarelli
FONTE: http://www.lastampa.it/2018/04/12/scienza/ambiente/focus/per-la-fao-la-rivoluzione-verde-arrivata-al-capolinea-6R5m0KiyfZM16lRNDzBg5K/pagina.html