La gestione dei rifiuti in Italia vive da diversi anni una fase critica e contraddittoria, contraddistinta da: obiettivi europei ambientali ambiziosi, un quadro normativo italiano complicato quanto incerto e un generalizzato clima ostile dell’opinione pubblica verso qualsiasi tipo di impianto di trattamento, compresi quelli di riciclo: una sindrome Nimby che sempre più spesso la classe politica non prova a risolvere – offrendo risposte concrete ai legittimi interrogativi della cittadinanza – ma anzi cavalca, sperando di rimandare il problema alla prossima tornata elettorale. Prima o poi però il conto arriva, e ci siamo quasi: secondo il rapporto Per una strategia nazionale dei rifiuti presentato oggi a Roma da Fise Assoambiente – l’associazione che riunisce le imprese private di settore – anche le discariche sono ormai quasi piene: «Escludendo eventuali ulteriori nuove autorizzazioni o ampliamenti, l’autonomia dell’attuale sistema di smaltimento in discarica è di circa due anni per il Nord Italia e meno di un anno per il Centro, mentre il Sud già evidenzia situazioni critiche».
Considerando che lo smaltimento in discarica dovrebbe rappresentare solo l’ultima (ma comunque necessaria) opzione nella gerarchia europea per la gestione dei rifiuti, s’intuisce quanto l’intero quadro industriale sia reso deficitario in assenza di una strategia nazionale di settore che sappia guidarne uno sviluppo calibrato sulle reali esigenze del territorio: in Italia si producono ogni anno 135 milioni di tonnellate di rifiuti speciali e circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, per i quali semplicemente mancano gli impianti necessari a gestirli, valorizzarli e/o smaltirli a norma di legge, con forti disparità a livello territoriale – la maggioranza degli impianti è a nord, seguono il centro e infine molto distanziato il sud del Paese – che acuiscono le difficoltà del sistema.
Ogni anno esportiamo già all’estero circa 3,1 milioni di tonnellate di rifiuti speciali, di cui 1 milione di rifiuti pericolosi e circa 0,4 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, e anche all’interno dei confini nazionali il “turismo dei rifiuti” ha raggiunto dimensioni ciclopiche: in un anno sono 1,2 miliardi i km percorsi dalla nostra spazzatura in cerca di impianti, il che equivale a percorrere circa 175.000 volte l’intera rete autostradale italiana (con la rispettiva dose di inquinamento atmosferico). E non è questa l’economia “circolare” che prevedono le ultime direttive Ue, il cui recepimento è fermo tra l’altro da cinque mesi in Senato: gli obiettivi Ue per i rifiuti urbani puntano per il 2035 al 65% di riciclo e al 10% di discarica, con dunque un 25% di rifiuti che dovrà essere avviato a valorizzazione energetica. Gli ultimi dati Ispra disponibili mostrano come tutto questo sia ancora lontano: nel 2017 in Italia il 47% dei rifiuti urbani è stato avviato a recupero di materia, il 18% a termovalorizzazione e il 23% in discarica.
Per raggiungere davvero gli obiettivi Ue servono impianti (di riciclo, recupero e smaltimento), non slogan. Assoambiente quantifica questa necessità in oltre 20 impianti per le principali filiere del riciclo (per quanto riguarda la selezione e valorizzazione di vetro, plastica, legno, metalli, Raee, carta e cartone), 22 impianti di digestione anaerobica per il riciclo della frazione umida, 24 impianti di termovalorizzazione, 53 impianti di discarica per gestire i flussi dei rifiuti urbani e speciali. Il tutto da realizzarsi in 16 anni, orizzonte 2035.
«Il nostro Paese – commenta il presidente di Fise Assoambiente, Chicco Testa – necessita di una Strategia nazionale di gestione dei rifiuti che, al pari di quella energetica, fornisca una visione nel medio-lungo periodo (almeno ventennale) migliorando le attuali performance. Fare economia circolare significa disporre degli impianti di gestione dei rifiuti con capacità e dimensioni adeguate alla domanda. In Italia servono impianti di recupero (di materia e di energia) capaci non solo di sostenere il flusso crescente in particolare delle raccolte differenziate di rifiuti, ma anche di sopportare fasi di crisi dei mercati esteri; servono anche impianti di smaltimento finale (discariche), capaci di gestire i rifiuti residuali quali gli scarti generati dal processo di riciclo e quelli che non possono essere avviati a recupero o a trattamenti. Un investimento complessivo che richiederà 10 miliardi di euro».
Ne vale la pena? Per rispondere, oltre agli evidenti vantaggi ambientali che comporta una gestione dei rifiuti fatta tramite impianti controllati e autorizzati ad operare anziché attraverso discariche abusive e mercato illegale, può essere utile ricordare che nel nostro Paese risultano presenti circa 7.200 impianti di riciclo che occupano circa 135.000 addetti. Complessivamente il settore della gestione dei rifiuti italiano vale circa 28 miliardi di euro – 11,2 miliardi di euro per i rifiuti urbani (dato Ispra), 16,9 miliardi per i rifiuti speciali (stima) – e migliorarlo è la via obbligata per permettere all’Italia di progredire sul fronte della sostenibilità ambientale, sociale ed economica.