Agcom, solo il 2% degli italiani riconosce sempre le notizie vere da quelle false

In parallelo all’epidemia legata al coronavirus SARS-CoV-2 è in corso un’infodemia, come l’ha battezzata l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che mina alla base la lotta in corso contro la diffusione del virus: una (sovra)abbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili e che al contempo incoraggia la diffusione di molte fake news. Un’infodemia contro la quale siamo largamente impreparati, come sembra emergere dai dati raccolti nel rapporto Percezioni e disinformazione. Molto ‘razionali’ o troppo ‘pigri’?, pubblicato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom).

 

Il documento presenta gli esiti di uno studio condotto dall’Agcom in collaborazione con SWG – su un campione rappresentativo della popolazione italiana, di 1.358 individui da 14 a 74 anni –, e rivela come provenienza geografica, livello di istruzione e condizione socioeconomica siano in grado di influire sulle percezioni e sul riconoscimento di notizie false. Il tutto facendo perno sul concetto di dispercezione, ovvero quella «credenza che si pone in contraddizione con le evidenze disponibili sui fenomeni di cui sono oggetto; gli individui, in particolare, credono in essa e ritengono di essere bene informati sui relativi temi», precisa l’Agcom.

 

Dall’analisi emerge che circa il 60% degli italiani, nel campione trattato da Agcom, risulta avere «una falsa percezione in relazione a fenomeni misurabili in senso oggettivo, che riguardano una serie di tipologie di contenuti: dalle informazioni sull’economia a quelle di tipo scientifico-ambientale, dai temi importanti dell’agenda politica, quali la situazione economica, l’immigrazione, la criminalità, il lavoro».

 

Un esempio pratico? La crisi climatica in corso: la “dispercezione” osservata dall’Agcom mostra che, in Italia, gli individui in media tendono a sottostimare gli effetti dell’azione dell’uomo sul cambiamento climatico.

 

Vista la sua rilevanza, il tema della dispercezione emerge come un fenomeno da esplorare sia nelle sue componenti di ragionamento razionale, sia nei fattori emotivi che lo condizionano. La dispercezione risulta ad esempio influenzata dal livello d’istruzione del singolo cittadino preso in esame, ma anche dalle sue condizioni socioeconomiche: una condizione lavorativa precaria se non del tutto negativa (come la disoccupazione) incide ad esempio significativamente sulla percezione della realtà, alterando negativamente le credenze che gli individui sviluppano sui fenomeni reali.

 

Queste riflessioni conducono a un passaggio ulteriore dell’analisi: approfondire cosa influenza le false percezioni della realtà e qual è il ruolo esercitato dalla disinformazione. Per esaminare questi aspetti, il campione è stato esposto a una serie di notizie realmente circolate sui media, sia vere sia false, ma i risultati non sono stati incoraggianti.

 

«Solo una piccola parte della popolazione (il 2%) ha riconosciuto sempre le notizie vere da quelle false, mentre più del 50% è stato ingannato almeno in 3 casi su 10». Anche in questo caso la capacità di riconoscere la diversa affidabilità delle notizie appare essere correlata al titolo di studio, il che sottolinea implicitamente la necessità di investire – a tutti i livelli – in educazione e formazione (come del resto suggeriscono da tempo gli studi condotti sull’analfabetismo funzionale nel nostro Paese).

 

Ne va della qualità di vita del singolo, ma anche della collettività. Le dispercezioni sono frutto dei processi mentali in cui trovano posto sia il ragionamento (la componente razionale), sia l’intuizione e l’emotività (compresi i bias cognitivi che ne scaturiscono). E da una parte, come spiega l’Agcom, gli errori decisionali «sono sensibilmente più probabili negli individui con dispercezione più elevata: ciò accade soprattutto quando si incorre nell’errore di considerare vera una notizia falsa».

 

Se le dispercezioni sono però così ampiamente diffuse, anche la collettività è portata a compiere più errori decisionali: nell’epidemia da coronavirus in corso, ad esempio, la prima fase è stata caratterizzata da un’ondata di allarmismo ingiustificato che ha oscillato tra la caccia all’untore e l’assalto ai supermarket, per poi virare verso una minimizzazione dei rischi che a sua volta ha incoraggiato atti di irresponsabilità. Poche sono state le occasioni per approfondire la distanza (in un senso e nell’altro) tra rischi effettivi e rischi percepiti, accompagnate dalla necessità di seguire pedissequamente le indicazioni in arrivo dalle autorità preposte per combattere l’emergenza con efficacia, ma senza cadere in isterismi.

 

In questo contesto, l’obiettivo che la comunicazione sui temi della sicurezza dovrebbe perseguire è invece l’allarme proporzionato, ovvero la sensazione di rischio adeguata al rischio effettivo. Un ruolo che anche i media sono chiamati ad esercitare con maggiore responsabilità: «La qualità dell’informazione – osserva l’Agcom – appare cruciale sia nel determinare il contesto informativo dal quale le persone attingono informazioni, sia nell’influenzare le stesse capacità cognitive degli individui di elaborare le informazioni e trasformarle in conoscenza».

 

di Luca Aterini

 

Fonte: http://www.greenreport.it/news/economia-ecologica/agcom-solo-il-2-degli-italiani-riconosce-sempre-le-notizie-vere-da-quelle-false/