I reperti fossili forniscono indizi su come le specie attuali si siano evolute da forme di vita precedenti. Fino a poco tempo, i ricercatori attribuivano la maggior parte dei cambiamenti – crescita della popolazione, evoluzione di nuovi tratti o estinzioni – ai cambiamenti climatici, ma lo studio “Investigating Biotic Interactions in Deep Time”, pubblicato recentemente su Trends in Ecology & Evolution da un team internazionale di ricercatori racconta un’altra storia che riguarda l’inestricabile frete del vivente.
Una delle autrici dello studio, Anna Kay Behrensmeyer, una paleoibiologa dello Smithsonian Institution, National Museum of Natural History, spiega che «Uno dei motivi per cui gli evoluzionisti tendono a concentrarsi sul clima è che è più facile ottenere questo tipo di informazioni».
33 anni fa, la Behrensmeyer ha contribuito a fondare il programma Evolution of Terrestrial Ecosystems (ETE), un team di scienziati di diversi dipartimenti museali che studia l’evoluzione degli organismi e degli ecosistemi nel corso di milioni di anni. E’ stato l’attuale gruppo di lavoro ETE, sponsorizzato dalla National Science Foundation Usa, a pubblicare lo studio su come anche le interazioni tra le specie determinano l’evoluzione.
LO studio evidenzia che «e estinzioni sono tra gli eventi ecologici più importanti. Quando le specie scompaiono, scompaiono anche le loro interazioni biotiche, interrompendo potenzialmente le reti ecologiche di cui facevano parte. In particolare, la perdita delle specie chiave di volta – quelle che interagiscono con un’ampia gamma di altre specie attraverso l’alterazione e la modulazione dei processi ecosistemici – ha ampie implicazioni per il resto del biota e può portare a cambiamenti fondamentali e permanenti nel funzionamento degli ecosistemi post-estinzione».
La Behrensmeyer sottolinea che «Da Darwin, e prima, è stato riconosciuto che le specie si influenzano davvero a vicenda, ma è molto difficile estrarre questo tipo di informazioni dalla documentazione fossile. I ricercatori sapevano che era importante, semplicemente non avevano gli strumenti per dire come era andata a finire per lunghi periodi di tempo». Il nuovo studio di revisione fornisce una roadmap che potrebbe cambiare la situazione.
La principale autrice dello studio, Danielle Fraser del Canadian Museum of Nature e della Carleton University di Ottawa, ex borsista post-dottorato al National Museum of Natural History della Smithsonian, ha sotolineato che «Lo studio mostra che è possibile modellare il modo in cui la competizione per le risorse, la simbiosi o la predazione modellano l’evoluzione e la sopravvivenza delle specie. Siamo interessati alla vasta gamma di cose che hanno influenzato il modo in cui si è evoluta la vita sulla Terra e come si sono evoluti quegli ecosistemi sulla terra”. Le interazioni tra gli organismi sono un aspetto di tutto ciò. Siamo anche interessati al clima e all’attività umana».
E lo studio evidenzia che «Gli esseri umani moderni (Homo sapiens) hanno lasciato l’Africa e hanno iniziato la loro dispersione globale prima di 50 ka. Gli esseri umani interagiscono con numerose specie, quindi i loro impatti ecologici e gli effetti sulle interazioni biotiche sono stati diversi. Nuovi studi integrativi suggeriscono che l’alterazione umana degli ecosistemi si estende per migliaia di anni nel passato. E’ quindi sempre più chiaro che le conseguenze ecologiche della migrazione e della colonizzazione umana non sono adeguatamente comprese dagli studi ecologici contemporanei. Studi recenti esaminano i cambiamenti nei modelli continentali e globali della diversità dei mammiferi, composizione delle specie animali e vegetali sulle isole, e l’addomesticamento umano su larga scala di specie vegetali in regioni precedentemente considerate incontaminate. Qui, ci concentriamo esplicitamente sugli impatti antropogenici sulle interazioni biotiche tra specie non umane, escludendo gli studi sulle interazioni uomo-ambiente e uomo-non-umano. Gli studi che esaminiamo utilizzano l’analisi della rete trofica, analisi macroecologiche della co-occorrenza di specie e modelli di distribuzione delle specie per dimostrare che le attività umane (ad esempio, traslocazione di specie, agricoltura, estinzioni) hanno alterato la diversità e i tipi di interazioni biotiche tra specie non umane per periodi che si estendono a molte migliaia di anni».
Gli scienziati ricordano che «In quanto predatori di grossa taglia, gli esseri umani aumentano la connettività media delle reti trofiche, a causa del loro sfruttamento di ampie schiere di prede e della tendenza a nutrirsi a più livelli trofici. La migrazione globale umana durante il tardo Pleistocene (16-14 ka) e l’Olocene (11,7 ka al moderno) è stata quindi particolarmente destabilizzante per le reti trofiche dei mammiferi terrestri, portando a cascate di estinzione, perdita di ridondanza funzionale e riduzione della resilienza a ulteriori cambiamenti ambientali. Nei sistemi marini costituiti da mammiferi e non mammiferi, tuttavia, questi effetti sono stati mitigati dai cambiamenti stagionali al centro degli sforzi di foraggiamento umano basati sulla disponibilità di risorse. Combinati, questi studi indicano che, storicamente, gli esseri umani hanno avuto effetti divergenti in diversi regni e continenti».
Ma gli scienziati avvertono che « Di fronte al continuo e rapido cambiamento globale antropogenico, in futuro garantire ecosistemi funzionanti richiederà un cambio di paradigma per facilitare le loro capacità di adattamento e funzionali, anche se le popolazioni delle singole specie diminuiscono e fluiscono. Lo sviluppo di strategie efficaci in base a questo nuovo paradigma richiederà una più profonda comprensione delle dinamiche a lungo termine che governano la funzione e la persistenza dell’ecosistema, comprese le interazioni biotiche tra specie non umane. L’obiettivo della futura ricerca sugli impatti umani dovrebbe quindi continuare a fare uso di grandi dataset e di nuovi strumenti analitici per capire come la biodiversità è cambiata in passato, perché gli sforzi di conservazione devono tenere conto della preistoria e di quali soglie e punti di svolta sono caratteristici dei sistemi socioecologici». E «I dati fossili sulle risposte del sistema Terra alle estinzioni passate e il ruolo delle interazioni biotiche nella resilienza e nel recupero forniscono analoghi unici e preziosi per le risposte delle specie al moderno cambiamento globale».
Lo studio, che riguarda diversi ecosistemi e scale temporali geologiche, utilizza la documentazione fossile in modi nuovi e innovativi per approfondire il motivo per cui le comunità ecologiche hanno un dato aspetto. «E’ molto rappresentativo di come ETE sfida gli scienziati che ne fanno parte a pensare in modo più ampio di quanto potrebbero nei loro programmi di ricerca», ha detto la Fraser.
Durante le riunioni, i ricercatori si scambiano idee, decidono progetti e organizzano team per realizzarli. La Behrensmeyer paragona il suo team a una macchina ben oliata: «Inizialmente, ci siamo riuniti per creare un database che ci permettesse di esaminare le associazioni di piante e animali nel tempo». Nel corso degli anni, con la guida della Behrensmeyer, della paleoecologa S. Kate Lyons dell’università del Nebraska-Lincoln e dell’ecologo Nicholas Gotelli dell’università del Vermont, L’ETE è cresciuto fino a diventare un think tank che ha sostenuto la ricerca sul campo, indirizzato studenti laureati e organizzato workshop ed eventi di sensibilizzazione.
I finanziamenti a lungo termine dello Smithsonian e della National Science Foundation e le collaborazioni in diversi campi hanno permesso ai membri del team di affrontare domande a cui sarebbe difficile rispondere in altri contesti. »Insieme – spiega Smithsonian Magazine – studiano le interazioni tra le specie nel contesto dei loro ambienti per rivelare modelli più ampi su come cambia la vita nel corso di centinaia di milioni di anni. I progetti spesso richiedono più anni di raccolta e analisi dei dati e incorporano idee di diverse discipline». La Behrensmeyer aggiunge.«Mettere insieme molte buone menti può rendere possibile scoprire cose che hanno uno spettro più ampio. ETE si concentra spesso su questioni che esulano dall’ambito di un singolo argomento».
Gli scienziati del team apprezzano anche le connessioni sociali: «Abbiamo persone che sono davvero affermate e che hanno svolto un sacco di lavoro rivoluzionario, ma abbiamo anche postdoc e dottorandi – spiega ancora la Fraser – Gli scienziati esperti offrono consigli sulle sfide dell’insegnamento e della ricerca, mentre i ricercatori all’inizio della carriera infondono alle discussioni entusiasmo e nuove prospettive. Stare insieme a persone in fasi di carriera diverse e a persone che lavorano su organismi diversi e utilizzano metodologie diverse, espande il modo in cui pensi alla tua scienza. E’ stata una delle esperienze più appaganti che ho avuto come scienziata»
L’attuale finanziamento per ETE terminerà a dicembre, ma i ricercatori sperano che il progetto vada avanti: «E’ stata una parte davvero meravigliosa della mia carriera – conclude la Behrensmeyer – So che anche se ETE non continuerà come prima, le persone che hanno formato legami professionali facendo parte del nostro gruppo di lavoro continueranno a collaborare e ad aiutarsi a vicenda in futuro».
Fonte: https://www.greenreport.it/news/aree-protette-e-biodiversita/come-le-interazioni-tra-specie-influenzano-levoluzione-e-le-estinzioni-di-massa/