La Giornata della terra, celebrata ieri in tutto il mondo, sembra l’occasione perfetta da festeggiare per gli ambientalisti della domenica che difatti sono tornati a spuntare ovunque come funghi: ma qual è davvero lo stato del capitale naturale italiano, e costa facciamo concretamente per difenderlo negli altri 364 giorni dell’anno? Molto, troppo poco a leggere l’ultimo Rapporto sullo stato del capitale naturale in Italia, presentato
due settimane fa dal ministero della Transizione ecologica ma reso disponibile solo in questi giorni.
Del resto basta osservare le priorità di spesa a bilancio dello Stato. Prendendo le mosse dal Catalogo sui sussidi ambientali approntato dallo stesso ministero, il rapporto mostra che ogni anno (dati 2018) il «valore complessivo dei sussidi favorevoli alla biodiversità ammonta a 12,5 miliardi di euro», mentre i sussidi dannosi alla biodiversità arrivano a «28,8 miliardi di euro». Ovvero, ai sussidi dannosi per il capitale naturale destiniamo oltre il doppio dei sussidi posti a sua tutela.
Più nel dettaglio, il rapporto mostra che dei sussidi dannosi «l’84,3% (86 su 102) favorisce l’inquinamento e l’eutrofizzazione, come nel caso degli incentivi ai trasporti, ai fertilizzanti e fitosanitari, all’agricoltura intensiva e allo smaltimento dei rifiuti; il 76,5% (78 su 102) è climalterante poiché incentiva le fonti fossili di energia e i trasporti privati; il 51% (52 su 102) incentiva il consumo di suolo e la frammentazione ed è causa di perdita di habitat come, ad esempio, nel caso della coltivazione delle biomasse o della nuova edilizia; il 33,4% (33 su 102) sostiene il sovrasfruttamento delle risorse, come nel caso degli incentivi alle attività di estrazione delle materie prime, le agevolazioni fiscali sul canone dell’acqua e il sostegno alla pesca; infine, il 19,6% (20 su 102) è potenzialmente impattante per la diffusione di specie invasive aliene come gli incentivi al commercio internazionale e l’agricoltura intensiva».
È di fondamentale acquisire la consapevolezza che tali danni non toccano direttamente “solo” la natura ma anche i cittadini e l’economia italiana, in quanto suoi sottosistemi: «La nostra prosperità economica e il nostro benessere – sottolinea il rapporto – dipendono dal buono stato del capitale naturale, che comprende gli ecosistemi che forniscono beni e servizi essenziali. La perdita di biodiversità può indebolire un ecosistema e compromettere la fornitura di tali servizi. Per questo motivo, è molto importante effettuare quantificazioni biofisiche e stime monetarie per misurare da un lato i costi ambientali associati alla perdita della biodiversità, dall’altro i benefici ottenuti per il benessere umano».
Sotto questo profilo sono stati analizzati in dettaglio 12 servizi ecosistemici (fornitura di biomassa legnosa, agricola, ittica, disponibilità idrica, impollinazione, regolazione del rischio di allagamento, protezione dall’erosione, regolazione del regime idrologico, purificazione delle acque da parte dei suoli, qualità degli habitat, sequestro e stoccaggio di carbonio, turismo ricreativo) e la loro variazione fra il 2012 e il 2018.
Non c’è da stupirsi se «le stime indicano, a distanza di 6 anni, diminuzioni nel flusso di molti dei servizi ecosistemici analizzati», con ripercussioni gravi: «72 milioni di m3 in meno di risorsa idrica ricaricata in acquiferi, al 2018 rispetto all’anno base, fino a 146 milioni di perdite economiche associate all’incremento di erosione dei suoli che è aumentata nel frattempo da 11,63 a 11,69 ton/ha, quasi due milioni e mezzo di tonnellate di perdita di carbonio immagazzinato nella vegetazione e nel suolo a causa della variazione di uso e copertura del suolo, da cui deriva una perdita di benefici economici che varia tra i 491 e i 614 milioni di euro, 259 milioni di m3 di acqua in eccesso, ovvero di carenza del servizio di regolazione dei regimi idrologici con perdite potenziali fino a 3,8 miliardi di euro».
Più in generale, su 85 tipi di ecosistemi italiani analizzati dal Comitato capitale naturale, quelli «a elevato rischio» certificati dalla Lista rossa Iucn «sono ben 29 pari a circa il 20% del territorio nazionale».
Certo, non tutto sta peggiorando: ad esempio, nell’arco di poco più di mezzo secolo l’ampiezza delle foreste nel nostro Paese è praticamente raddoppiata. Negli ultimi 70 anni le foreste italiane hanno raggiunto quasi il 40% del territorio nazionale – circa 12 milioni di ettari – e all’interno di questi ecosistemi è ormai immagazzinato CO2 per 4,5 Gt (miliardi di tonnellate). Ogni anno, grazie all’accrescimento degli alberi, vengono fissate altre 46,2 Mt di CO2, contribuendo a lenire la crisi climatica.
Ma per delle foreste che crescono, altre – quelle marine – stanno scomparendo. Si guardi ad esempi alle piante di posidonia: nell’ultimo secolo abbiamo perso il 30% delle praterie di fanerogame marine, e a scala nazionale solo la perdita di sequestro del carbonio – senza dimenticare altri servizi ecosistemici come la protezione dei litorali dall’erosione, o il rifugio offerto dalla posidonia a numerose specie ittiche – si stima arrivi a 226mila ton/anno. «La perdita di fanerogame marine – spiega il rapporto – è paragonabile a quella segnalata per mangrovie e coralli». Per le foreste di alghe brune va ancora peggio: negli ultimi 50 anni è andato perso l’80% delle foreste esistenti lungo le coste italiane.
Che fare dunque per migliorare? Recenti valutazioni dell’Ocse stimano che il finanziamento della biodiversità a livello globale ammonti a una cifra compresa tra 78 e 91 miliardi di dollari l’anno, contro i 140-440 miliardi di dollari annui che si stima siano necessari per colmare il gap finanziario per la conservazione della biodiversità (definita nel raggiungimento degli Obiettivi di Aichi). Anche l’Italia è chiamata a fare la sua parte per aumentare quest’importo, a partire dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che la prossima settimana dovrà arrivare a Bruxelles.
di Luca Aterini
Fonte: https://www.greenreport.it/news/economia-ecologica/il-capitale-naturale-ditalia-si-sta-degradando-e-a-rimetterci-e-anche-leconomia/