In Italia i sussidi ambientalmente dannosi pesano sui conti pubblici per 21,6 mld di euro l’anno

Dopo aver affinato le stime anche per gli anni precedenti, il ministero della Transizione ecologica ha appena pubblicato il quarto Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi e dei sussidi ambientalmente favorevoli, aggiornando le stime al 2020.

 

In tutto sono arrivati a 180 i sussidi – o sovvenzioni – censiti, ma a fare la parte del leone sono sempre quelli dannosi per l’ambiente. In totale i Sad hanno pesato sulle casse pubbliche per 21,6 miliardi di euro (per Legambiente si arriva invece a 34,6 mld), come di consueto più di quanto assicurato ai sussidi ambientalmente favorevoli (Saf): 18,9 mld di euro. A questa dicotomia s’aggiungono poi i sussidi di incerta classificazione, pari ad altri 13,6 mld.

 

All’interno di queste tre voci c’è di tutto, dato che per “sussidi” s’intendono tra gli altri, gli incentivi, le agevolazioni, i finanziamenti agevolati o le esenzioni da tributi direttamente finalizzati alla tutela dell’ambiente; si parla dunque di sussidi diretti (voci di spesa) e indiretti (spese fiscali), compresi gli impliciti (ad esempio, si riferiscono all’underpricing per l’estrazione di risorse naturali).

 

Più nel dettaglio, nel 2020 i maggiori sussidi ambientalmente favorevoli sono stati il Conto energia (6,2 mld €) e l’Incentivazione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili diverse dal fotovoltaico (5,8 mld €); tra i Sad, invece, stavolta la voce più consistente spetta all’Iva agevolata per case di abitazione non di lusso (4,2 mld €), mentre per il 2020 scivola al secondo posto il Differente trattamento fiscale fra benzina e gasolio (2,6 mld €).

 

La natura eterogenea di questi sussidi, unita al fatto che in molti casi sono diretti a sostenere precari equilibri sociali – oltre a peggiorare la performance ambientale del Paese –, suggerisce particolare attenzione politica nell’andare a rimodularli. Del resto basta poco ad accendere la miccia delle proteste (basti ricordare il caso dei Gilet gialli in Francia), e questo in Italia si è tradotto nel più completo immobilismo.

 

Di fronte a una crisi climatica che in Italia corre a velocità doppia rispetto alla media globale, l’immobilismo però non è la scelta più saggia: se è vero che la fiscalità ecologica tasse verdi – così come l’Iva – tende ad essere regressiva, ovvero grava più sui redditi bassi di quelli alti, per renderla più equa e socialmente accettabile è necessario prevedere interventi correttivi o destinazioni del gettito adeguate (ad esempio a favore di interventi contro la povertà), anche perché è bene ricordare che la disuguaglianza pesa molto anche sul clima, coi ricchi ben più responsabili dei poveri per la crisi climatica in corso.

 

Un aspetto cui il ministero della Transizione ecologica dovrà giocoforza tener presto conto, dato che finalmente sembra avvicinarsi una riforma dei sussidi ambientalmente dannosi. «Il ministero della Transizione ecologica – si legge in apertura del Catalogo – presenterà un piano di uscita dai sussidi ambientalmente dannosi, in linea con il pacchetto Fit for 55, entro la metà del 2022. I lavori di analisi sono già cominciati e il piano permetterà di eliminare i sussidi ambientalmente dannosi sviluppando al contempo, quando necessario, criteri compensativi».

 

Da dove partire? Ci sarebbero i sussidi dannosi alla biodiversità, ad esempio, che sono stati stimati a quota 36,17 miliardi di euro per il 2020. Ma guardando al complesso dei Sad, come sempre a spiccare sono i sussidi e le sovvenzioni garantite alle fonti fossili, che arrivano a comporre i due terzi dei Sad censiti, fino ad un ammontare dai 13.060,21 euro nel solo 2020. Che cosa succederebbe al Paese se decidessimo di eliminarli?

 

 

Come negli anni scorsi, il Catalogo offre una risposta puntuale a questa domanda: per valutare costi e benefici a livello macroeconomico viene utilizzato il modello Ermes, con anno di riferimento il 2015 e un totale di sussidi ai combustibili fossili da riallocare pari a circa 12 miliardi di euro.

 

Partendo da questi dati, sono tre gli scenari simulati: nel primo (A) la rimozione delle sovvenzioni comporta solo una riduzione della spesa pubblica; nel secondo (B) gli introiti si usano in parti uguali per aumentare gli attuali risparmi di bilancio, sovvenzionare le fonti rinnovabili e migliorare l’efficienza energetica del settore industriale; nello scenario C, infine, i risparmi vengono impiegati per ridurre il cosiddetto cuneo fiscale del lavoro “qualificato”.

 

I tutti e tre gli scenari, le emissioni italiane di gas climalteranti si riducono in modo significativo, mentre il Pil assume un andamento più variegato. Nello scenario A cala dello -0,58%, ma nel B e nel C il Pil cresce dello 0,82% e 1,60% rispettivamente, mostrando ottime ricadute sull’economia nel complesso. Soprattutto, gli scenari B e C mostrano anche un impatto positivo anche sull’occupazione, che aumenta del 2,3% e del 4,2%.

 

Nessuna conseguenza negativa, dunque, legata alla cancellazione dei sussidi ai combustibili fossili? Una in realtà c’è: la loro rimozione «potrebbe rivelarsi un vantaggio competitivo per gli altri Paesi (che nel nuovo scenario possono produrre a costi relativamente inferiori) e determinare un aumento delle importazioni dell’Italia dal resto del mondo». Si tratta del cosiddetto carbon leakage, per il quale l’Italia da sola può fare poco ma sul quale l’Europa è già al lavoro grazie alla prossima introduzione di una carbon tax alla frontiera (Carbon border adjustment mechanism, Cbam). Non restano scuse dunque per iniziare a tagliare i sussidi alle fonti che alimentano la crisi climatica.

 

di Luca Aterini

 

Fonte: https://greenreport.it/leditoriale/in-italia-i-sussidi-ambientalmente-dannosi-pesano-sui-conti-pubblici-per-216-mld-di-euro-lanno/#prettyPhoto